Dall’editore al lettore. Come sta cambiando la composizione del mercato dei libri e quella della comunità dei lettori.

digital_bookC’è posta per te è un film del 1998 con Tom Hanks e Meg Ryan. Lei ha una piccola libreria per ragazzi, lui è un manager di una catena di megastore di libri, che deve aprire un nuovo punto vendita proprio in quel palazzo. Nella vita reale si scontrano duramente, però, senza sapere le proprie identità, chiacchierano piacevolmente via e-mail, finché trionfa l’amore. Non il lieto fine. Il megastore si fa e la piccola libreria chiude. Hollywood aveva previsto tutto, ma non ci ha detto il finale. Non ci è dato sapere che fine faccia Meg Ryan. La sceneggiatura – il film è un remake, una cosa rimaneggiata e adattata – si ferma. Questo mio testo prova a chiederselo: Meg Ryan si è ritirata a vita privata? È entrata come shopgirl, commessa, che era il suo pseudonimo per l’e-mail, nel megastore dell’amato? Ha fondato Amazon per vendicarsi? Parlare della nuova composizione del mercato dei libri e della comunità dei lettori è una questione piena di interrogativi. Forse il più curioso è questo: dov’è finita Meg Ryan?

Per la prima volta negli Usa le vendite online hanno superato quelle in libreria. Stephen King, che è stato un pioniere dell’e-book – Riding the bullet fu pubblicato in digitale nel 2000 e scaricabile gratuitamente, e Miglio 81 nel 2011 solo in formato e-book –, due anni fa non ha voluto, all’inizio, per Joyland un’edizione digitale, ma solo la cartacea. Voleva aiutare le librerie. Solo che pure Amazon lo vendeva, lo stravendeva. Dell’ultimo libro di Murakami, per competere con le vendite online, la catena di librerie Kinokuniya ne ha comprato novantamila copie delle prime centomila. È una concorrenza che non è possibile fare se non sei la catena di librerie Kinokuniya. A Ginza, quartiere di Tokyo, una nuova piccolissima libreria, quattro metri per quattro, tiene un solo libro a settimana; dopo una settimana, lo cambia; di sicuro, non potrà esserci la “settimana Murakami”. Non ce ne sono copie disponibili.

Il mercato dei libri è al primo posto nel mondo nel mercato dei contenuti. Secondo i dati di qualche anno fa, valeva 151 miliardi di dollari; il cinema ne valeva 133; i quotidiani e le riviste 107, i videogames 63, e la musica 50. Gli Stati uniti – sono i dati del 2014 – occupano largamente il primo posto nel mercato dei libri, con il 26 per cento della torta; seguiti dalla Cina, con il 12, dalla Germania, con l’8, dalla Francia, con il 4, e dalla Gran Bretagna, con il 3. Noi italiani dovremmo essere al settimo o ottavo posto, anche se siamo al decimo o undicesimo per numero di lettori. Eravamo molto più indietro, fino agli anni Sessanta. Tra la metà degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta, il numero dei lettori in Italia raddoppiò, e di più. Un balzo enorme. Dagli anni Ottanta, il mercato è più o meno stazionario: abbiamo raddoppiato diplomati e laureati, ma non i lettori. Più o meno, la classifica sulle quote di mercato equivale quella del Prodotto nazionale lordo. I cinesi – di cui fino all’anno scorso si profetava un sorpasso di Pil nel 2020 – però hanno già superato gli Stati uniti nei nuovi titoli per anno. Poi, al terzo posto c’è la Gran Bretagna, poi la Russia, poi l’India, poi il Giappone, la Germania, l’Italia, poi la Spagna, la Corea del Sud, la Turchia e la Francia. Forse questa classifica è più corrispondente a quella dei Prodotto nazionale lordo, con le nuove nazioni in ascesa. É complicato mettere assieme questi numeri con la libertà di stampa: Cina, Russia, Turchia, sono paesi a regime autoritario e dove viene esercitata una forte censura. Però, si stampa una gran quantità di libri. Lì, il mercato del libro è fiorente. Una volta, il filosofo Gadamer osservò che nella Germania nazista ci fu un grande sviluppo della musicologia, delle ricerche archeologiche, di studi accademici. Si erano bruciati molti libri, ma se ne erano stampati altrettanto. Era possibile una ricca vita da studioso, se ti comportavi manierlich. È un’espressione terribilmente gelida, proprio per non essere fosca, anzi garbata, secondo le maniere. Se guardiamo le cose da questo punto di vista, la fioritura del mercato può essere inquietante tanto quanto, per tutt’altri versi, la crisi.

Il self-publishing, l’autopubblicazione, ha raggiunto cifre da capogiro. Già un paio d’anni fa i libri autopubblicati in Italia avevano superato i titoli Mondadori. Vendite? Non pervenuto. Un anno fa, un sondaggio fra cento autori autopubblicati, aveva rilevato che solo un terzo aveva venduto più di cinquecento copie, con il picco massimo di millecinquecento. Sembrerebbe rovesciarsi la piramide dei “popoli del libro”, quella che ha un solo libro alla sommità e milioni di lettori alla base; qui avremo una quantità di scrittori alla sommità e pochi lettori alla base. Negli Stati uniti va meglio. Il fondatore di Smashwords, una delle piattaforme più importanti di self-publishing, sostiene che nel 2020 le vendite rappresenteranno il 50 percento del mercato. La profezia si avvererà? Conviene autopubblicarsi? Amazon, che fa anche da piattaforma self-publishing, ha cambiato le regole del gioco: una volta, l’autore, fosse autopubblicato o no, veniva pagato sulla base del numero di e-book scaricati, adesso, da quest’estate, le royalties degli e-book autopubblicati verranno pagate in base al numero di pagine lette. Non sappiamo se questa innovazione di Amazon favorirà i libri brevi o quelli lunghi. Se pubblico mille pagine e me ne leggono tante, guadagno di più. Ma se si fermano a pagina ottanta e non vanno avanti, guadagnerei di più pubblicando un libro di cento pagine che leggono tutto per vedere come finisce. Secondo un sondaggio, Il Cardellino, il romanzo Pulitzer di Donna Tartt, è stato completato solo dal 44 percento dei lettori dell’e-reader Kobo nel Regno Unito. Autopubblicarsi è con buona probabilità un segno di progresso, e dell’uso diffuso e dal basso delle tecnologie. Molti autori che non hanno la determinazione di vedere respinti i propri lavori per cinque volte da venti case editrici e continuare a scrivere e inviare manoscritti, scelgono questa strada. C’è una componente di vittimismo – tutto un complotto, le case editrici pubblicano solo i loro “amici” –, una di narcisismo, una di “libera impresa”. Di auto-impresa. Come per tutto il lavoro intellettuale, chi scrive romanzi si è andato convincendo che l’imprenditoria individuale è una forma di libertà. Delle varie componenti che spingono all’autopubblicazione, la più vera, a mio avviso, è che le case editrici pubblicano “sul sicuro”. I grandi editori, come ogni grande impresa, non investe più in sperimentazione e ricerca, preferendo l’assenza di rischio. La grande editoria è speculativa, come il resto del capitalismo dei contenuti. Si punta sui blockbuster – come al cinema. Quello che fa più riflettere è che anche gli scrittori abbiano assunto l’assenza di rischio. La predominanza di gialli, noir, thriller nei nuovi titoli e nelle vendite può dire questo: tra lavoro intellettuale e capitale editoriale c’è cooperazione a produrre numeri profittevoli. Di per sé non è una cosa riprovevole, ma lo può diventare. Il panorama editoriale, forse culturale, è il prodotto di questa cooperazione.

Quello che possiamo constatare senza apparire inguaribilmente rétro è che non ci siano più libri che diano scandalo, non ci siano più libri che vengano messi all’indice. Possiamo forse dirlo altrimenti, che lo scandalo appartiene ormai talmente alle nostre vite quotidiane da non farci più caso. O da avere la stessa vita media di un libro: ventinove giorni, è il tempo che dura in una libreria di Londra un titolo. Più o meno, il tempo del nostro scandalo per le foto del piccolo curdo annegato nella Grande migrazione. Visivamente, non c’è più alcuna barriera all’orrore e alla trasgressione. E è difficile che un libro – forse l’ultimo è stato Versi satanici di Rushdie – venga colpito da una qualche fatwa. Senza lo scandalo del libro non c’è dibattito, non c’è opinione, non c’è schieramento, non c’è curiosità per i libri. Harper Lee fece un libro straordinario nel 1960, Il buio oltre la siepe. Era ambientato nel Sud degli Stati uniti, e uscì al tempo del movimento per i diritti civili. Quest’anno è uscito Go set a watchman, tenuto nel cassetto da Harper Lee per più di cinquant’anni, il prequel, in classifica tra i primi titoli scaricati da Amazon. Ma i miracoli non sono ristampe o riedizioni o prequel. E gli scandali, come i miracoli, non si ripetono mai due volte nello stesso posto.

I dati dicono che l’assorbimento del mercato dei libri va concentrandosi nelle grandi aree metropolitane. L’autore può vivere isolandosi – Cormac McCarty prende a fucilate chiunque si avvicini indesiderato alla sua fattoria, Salinger e Pynchon hanno rivestito di aura il proprio distacco dal mondo – ma i suoi libri vanno nei luoghi dove gli uomini si addensano. Tra le grandi migrazioni cui assistiamo, c’è anche quella dei libri. Benché non facciano parte dell’essenziale bagaglio dei profughi, i libri seguono le stesse rotte migranti. Forse è una cosa accaduta sempre, dalla Biblioteca di Alessandria, il più fiorente centro commerciale e urbano del tempo; forse è una cosa che accade a intermittenza: nel Medio Evo fu la disseminazione dei libri, in abbazie e monasteri, che li salvò e li riprodusse. Forse è un fenomeno nuovo. Se i dati sono veri e hanno senso, “la provincia” rimarrà senza libri. In-Mandarin, uno dei più grandi book-store di Shangai, sei piani di libri, non ha proprio nulla da invidiare ai megastore di Berlino, ma non ho dati per dire quanti libri si vendano nella provincia dello Hunan. Per ogni libro che si vende a Iowa City se ne vendono cento a New York, e per ogni libro che si vende a Cosenza se ne vendono dieci a Milano. Ci preoccupiamo molto, e giustamente, del digital divide, ma potremmo trovarci di fronte a un lecturer divide; invece del popolo dei libri, trovarci di fronte a libri senza popoli. Qui, internet può aiutare. C’è un solo dato di lettura in cui il Sud Italia – la Calabria, la Sardegna, che sono agli ultimi posti – è nei primi posti: quello di chi scarica libri sul totale di chi usa internet. E questo nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni. Sono lettori che sanno già cosa cercare. E non hanno altro modo di procurarselo, o fanno più rapidamente a procurarselo. I dati dicono che il mercato dell’e-book è in aumento esponenziale, anche se, in Italia, nel 2014 sono stati venduti 87 milioni di libri in cartaceo e solo 7 milioni di e-book. Ma il totale dei titoli venduti non cresce e è stazionario. L’e-book sembra un’esperienza sostitutiva del libro – per lettori già adusi al libro –, non aggiuntiva. Però, il libro è già tecnologicamente uno strumento “maturo”. Se il romanzo è ancora un’esperienza adulta, considerando l’aumento della durata media di vita e l’invecchiamento della popolazione, c’è un buon margine di tempo davanti, prima di considerarlo obsoleto. Io credo sarebbe una buona idea se tutte le biblioteche comunali – che vivono, tutte, situazioni drammatiche, ma sono come gli uffici delle Poste e le centraline dell’Enel, l’unica istituzione capillare nel nostro paese – avessero in dono pubblico i nuovi titoli in formato e-book. E anche molte biblioteche scolastiche. Qui, l’abbattimento dei costi e la facilità di riproduzione potrebbero essere un grande vantaggio. Per aggiungere e raggiungere lettori. È una scelta “politica”, un investimento “pubblico”. Però, anche un segno di speranza, e una possibilità di ritorno.

Quest’estate ho conosciuto una ragazzina di quattordici anni, la figlia di un’amica. Ha il suo profilo facebook, il suo tablet, il suo cellulare, il suo I-pod. È una nativa digitale. Ma non sopporta gli e-book. Dice che il libro si legge su carta, che devi sentire sfogliare le pagine, che su qualsiasi schermo le parole e le frasi non sembrano vere. Ovviamente, ne sono rimasto incantato. C. è una nativa digitale ma è anche pre-digitale. O forse post-digitale. Mi sono chiesto come sia possibile. Mi sono chiesto, se non siamo già entrati tutti, senza accorgercene, in un’era post-digitale complessa e contraddittoria, in cui le cose convivono e confliggono. Mi sono chiesto se non fosse lei la risposta a dove sia finita Meg Ryan.

Vorrei, perciò, avanzare e azzardare un pensiero e un’ipotesi di lavoro. Che la crisi e la trasformazione del mercato editoriale, delle librerie, degli editori, con il declino e la concentrazione dei grandi marchi, siano in realtà la conseguenza di un fenomeno straordinario che possiamo chiamare l’indipendenza del lettore. O anche, con diversa nominazione, l’autonomia della lettura. La lettura rimane una irriducibile esperienza individuale. Si potrebbe dire, lo è sempre stata. È vero, quello che si è potenziato però è la comunità dei lettori, il popolo dei libri. In una sorta di general lecture, di lettura collettiva. Sartre parlava di lettura come creazione diretta: «… attraverso la coscienza del lettore ogni opera letteraria è un appello. Lo scrittore si appella alla libertà del lettore perché collabori alla produzione della sua opera…». Forse, è oggi possibile parlare di produzione diretta. È questa general lecture, la straordinaria produzione di recensioni, commenti, passaparola, suggestioni, suggerimenti, opinioni, che poi ritrovo nella mia scelta, nella mia decisione di leggere un libro, di rischiare quella lettura, di condividerla. Di restituirla. Una sorta – non so come dirlo altrimenti – di Reader’s Digest Universale, dove la traduzione letterale aiuta: ciò che il lettore ha digerito. E smaltito. È questo un fenomeno nuovo, mai visto, favorito dalle tecnologie. Si è modificato il lettore, attraverso la lettura. In La passione per l’assoluto, il grande critico George Steiner mostra tristezza e incomprensione per quei giovani dei college americani che leggono libri ascoltando la musica e distraendosi con internet e chissà quali altre “diavolerie”: secondo lui, è impossibile leggere bene, se non concentrandosi assolutamente su una “lettura ben fatta”. Però, siamo di fronte a nuovi soggetti mutanti, a un lettore mutante. Se è vero che si riduce la soglia di attenzione verso il libro – e, di conseguenza, il numero di pagine lette, di libri necessari –, si è spalmata verso altri oggetti e veicoli e strumenti il desiderio di conoscenza. Si è modificato anche tecnologicamente il lettore, ben più di quanto si sia modificato il libro. Va riducendosi la centralità del libro, va aumentando la pratica della lettura. Magari sotto altre forme. Nessuno sa cosa accadrà del libro: aumenterà il fenomeno della sua scarsità, in un universo distopico alla Mad Max, in cui anche l’acqua diverrà rara e preziosa? Per intanto, il lettore mutante ha bisogno di leggere. Non basta il catalogo che ognuno porta con sé: senza aggiornamento, senza ricombinazione, non c’è creatività e inventiva, non ci sono nuove parole e nuove espressioni di sentimenti, nuove descrizioni di immaginario. Non si può essere messi al lavoro, non si può fuggirne. Considero questa indipendenza del lettore uno straordinario desiderio di libertà e autonomia.

Avanzo una seconda idea, un po’ più provocatoria: il mercato “reale” dei libri in Italia riguarda il 18 per cento di lettori. Quel poco più di quaranta per cento è quello che compra un libro l’anno – secondo le rilevazioni Istat. Lo zoccolo duro è quel diciotto per cento. I lettori “forti”, intelligenti. Qui competono tutti, qui arrivano tutti. Qui, per le loro scelte, molti fioriscono, molti sopravvivono, molti scompaiono. Può sembrare una situazione “arretrata” – e spesso così viene indicata. Per i numeri che vi ho dato e per le cose che vi ho detto, io credo che questa situazione italiana anomala possa invece essere considerata un “laboratorio”. Di sperimentazione, di progetto. Ora, questa indipendenza del lettore non ha una forma sindacale, non è il Sindacato dei lettori. Ci fosse, sarebbe comunque il vero interlocutore con cui trattare, magari più convenevole del Distribution Syndicate, come si chiamavano fra loro i gangster. L’indipendenza del lettore invece è un campo di battaglia, dove si convive e si confligge, capitalismo dei contenuti, piccola editoria, vecchi librai, megastore, blockbuster e piccole tirature, censure preventive e libertà, libri di nicchia e mucchi di copie fino al soffitto. Io credo che la comunità dei lettori, la general lecture, chieda agli editori indipendenti di fare esattamente quello che già fanno, piccole scoperte e riscoperte, collane curiose. Quelle cose che la grande editoria, il capitale dei contenuti non fa più. Purché l’essere “piccoli editori” non sia preso come incarico di identità, come un processo identitario. I processi identitari sono contrari alla buona narrativa, non saprei come altro dirlo. Senza l’editoria indipendente mancherebbero tanti libri, e anche la qualità dell’offerta del capitale dei contenuti sarebbe sempre più manierlich, senza essere costretto a inseguire, a mettersi al passo. Il libro non è come la ferrovia dei baron robber alla conquista del West: per quanti chilometri di binari posino, c’è sempre frontiera davanti. E anche dietro, nei cataloghi. La comunità dei lettori sembra apprezzare le fiere, gli eventi, le manifestazioni, le attività nelle scuole. Anche se – lo scriveva Emanuele Trevi qualche giorno fa sul «Corriere della Sera» –, alla lettura pubblica di un brutto libro c’è da preferire che nessun libro venga letto. Non tutta l’intelligenza sociale sta nei libri. Né negli editori, grandi o piccoli che siano. Qualche formula di evento sparirà, qualche altra spunterà.

Questa autonomia, questa indipendenza del lettore non è un fenomeno lineare. Per un verso va controcorrente, per un altro segue la corrente, le indicazioni del mercato. A volte, si passano a fianco la “piccola lettura” di un gran libro, e la “grande lettura” di un piccolo libro. Spostare lo sguardo dal libro, dalla filiera produttiva del libro, al lettore può essere una chiave di interpretazione e di invenzione del “che fare”. Il libro è una festa di lettura, è una festa per il lettore. È su questo punto che dobbiamo inventare e agire: cosa può voler dire incrociare l’editoria indipendente e il lettore indipendente, l’editoria mutante e il lettore mutante? C’è una questione cruciale sulla quale la comunità dei lettori può poco e gli editori indipendenti devono fronteggiare da soli, o consorziati, i cartelli dei libro-trafficanti: quello della distribuzione. Qui, la sensibilità politica, la cosa pubblica, la mobilitazione, può essere di aiuto.
Rimane, al centro di tutto, il libro. E senza buoni libri, che te lo dico a fare?

(Introduzione al seminario sul libro indipendente, I fiori di Gutenberg)
Roma, 3 ottobre 2015

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